L’Italia e la Legge Merlin

Nov 28, 2025
L’Italia e la Legge Merlin

Capita non di rado di incontrare persone fermamente convinte che offrire servizi sessuali a pagamento in Italia sia un reato. Non c'è da stupirsi: di sex work nel nostro Paese si parla poco e, diciamocelo, male. Eppure una legge non solo c’è, ma esiste da ben sessantasette anni. 

In Italia la Legge n. 75 del 1958, la cosiddetta Legge Merlin, fu approvata dopo un iter parlamentare durato quasi dieci anni: presentata in Parlamento il 6 agosto del 1948, entrò in vigore il 20 settembre 1958. 

Con quel voto, spinto dalla senatrice socialista Lina Merlin, l’Italia usciva dal modello strettamente regolamentarista e ghettizzante delle cosiddette case di tolleranza, per sposarne uno abolizionista, incentrato sulla mera tolleranza del fenomeno e sulla sua riprovazione etica e morale. 

E mentre sulla prima scelta non si può che essere concordi nel ritenerla una grande conquista del tempo, è sulla seconda che, ad oggi, si osservano gli enormi fallimenti della legge. 

Ma andiamo con ordine.

Nel 1948, dieci anni prima della definitiva approvazione della “Merlin”, in Italia esistevano circa settecento “postriboli”, frequentati - si stima - da oltre due milioni di persone e che nei primi anni dell’immediato dopoguerra garantivano alle casse statali tra i dieci e i quindici miliardi l’anno. 

L’Italia, però, si collocava nel panorama europeo come uno dei pochi stati a tollerare ancora, attraverso il sistema delle case chiuse e con una forte ingerenza di controlli sanitari, la prostituzione. La vicina Inghilterra aveva infatti provveduto ad abolire le case di tolleranze sin dal 1885; la Polonia aveva approvato, nel 1930, una relazione governativa che riconosceva le case dedite alla prostituzione come centro di traffico per il reclutamento di donne e lo stesso si accingeva a fare la Svizzera.

Infine la Francia, che con una legge del 1946 fatta approvare da Marthe Richard - consigliera del Quarto arrondissement di Parigi ed ex sex worker - aveva chiuso tutte le duecento case di tolleranze della città, disponendo che la prostituzione non fosse vietata ma punendo le attività di sfruttamento e istigazione. 

Insomma, l’Italia del Secondo Dopoguerra era certamente pronta ad avviare un dibattito teso al superamento del modello delle case chiuse, delle schedature di chi offriva sessuali a pagamento, degli obblighi di visite sanitarie periodiche e della stretta ingerenza statale.  Ed è quindi in questo panorama europeo che prende avvio anche in Italia il dibattito sull’opportunità di chiudere quei luoghi. 

Il discorso di Lina Merlin

Riassumere dieci anni di dibattito parlamentare è al limite dell’impossibile, ma ciò che possiamo dire è che, all’alba della presentazione del testo di legge da parte della senatrice Merlin (denominato “Abolizione della regolamentazione della prostituzione, lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui e protezione della salute pubblica”), diverse furono le sensibilità che si confrontarono sul tema.

Lina Merlin

Il discorso di Lina Merlin in Parlamento   mise  sin da subito in chiaro quali fossero i principi ispiratori del testo presentato: ai rapporti sessuali a pagamento con prostitute (termine sempre declinato al femminile) veniva attribuito un connotato negativo sotto il profilo morale, quale vizio da cui rifuggire, ma anche sociale, in termine di disfacimento della famiglia e fisiologico, quale devianza e impulso irrefrenabile, propria dell’uomo; si richiamava la salute pubblica quale bene superiore da proteggere dalla “piaga” della prostituzione di Stato e si sottolinava il decadimento del ruolo della donna nella società. 

La visione della senatrice, in buona sostanza, si avvicinava a quella che decenni dopo verrà conosciuto come approccio "neo-proibizionista" - detto anche “modello nordico” per la sua diffusione in paesi come Svezia, Norvegia e Islanda - dove la persona che si prostituisce (anche in questo caso declinata quasi esclusivamente al femminile) viene considerata sempre una vittima e la prostituzione manca della componente della libera scelta.

Come si diceva in apertura, a distanza di oltre sessant'anni occorre dunque tracciare i punti cardine e trarre un bilancio di una normativa che, ogni giorno, viene applicata da forze dell’ordine e Tribunali verso decine e decine di persone. 

Ha comportato, anzitutto, la chiusura di tutte le case chiuse ed eliminato il sistema di forte regolamentazione statale. Mai modificata e dunque ancora vigente nel paese, rappresenta un caso tipico di legge abolizionista: non proibisce lo scambio di sesso contro denaro ma criminalizza condotte ancillari, quali l’agevolazione, l’adescamento e lo sfruttamento, ma anche il favorevoggiamento al fine di contenere la pratica e i suoi effetti collaterali. 

Analizzando l’intero impianto della norma, emergono diverse criticità dal punto di vista giuridico. 

Un esempio tra tutti è quello legato all’articolo 3 della legge che stabilisce la medesima cornice sanzionatoria (la reclusione da due a sei anni) per attività che sono fra loro profondamente diverse per gravità.

Con la stessa severità con cui viene incriminato chi dirige e amministra una casa di prostituzione sfruttando la prostituzione altrui, o di chi fa parte di organizzazioni deputate al reclutamento e al trasporto in territorio straniero di persone destinate alla prostituzione, viene infatti punito chiunque “favorisca”, con qualsiasi attività, l’esercizio dell’attività (art. 3, comma 1, n. 8).

In quest’ultimo caso, trattandosi il favoreggiamento di una fattispecie “a struttura aperta”, ossia che può potenzialmente ricomprendere qualsiasi comportamento che tenda a favorire la prostituzione volontaria, rientrano, ad esempio, anche le attività dell’accompagnare una persona sex worker presso i luoghi di incontro o rimanere fuori dai locali ove questa svolge l’attività per vegliare sulla sua incolumità, anche quando avvenga per opera di un’altra persona sex worker.

La sproporzione di disvalore tra condotte (alcune delle quali persino utili), sanzionate allo stesso modo, appare allora evidente. 

Quanto ad un bilancio, è bene dirlo chiaramente: se è vero che l’impianto scelto al tempo dalla sentrice Merlin mirava ad affrancare migliaia di persone, in gran parte donne, da condizioni disumane - quali quelle, già richiamate, proprie del regolamento di Cavour del 1860 che imponeva schedature e registrazioni per chiunque esercitasse lavoro sessuale -, è altrettanto innegabile come l’assetto scelto abbia creato, nei decenni, un enorme vuoto legislativo.

Esercitare lavoro sessuale in Italia non è infatti illegale, ma non è nemmeno attività riconosciuta come lavoro, circostanza che la rende del tutto priva di diritti e di tutele per chi esercita. Il paradosso, o meglio l’ipocrisia, sta dunque nel fatto che in Italia il lavoro sessuale è legale ma non riconosciuto.

Forse perché è pensiero radicato nella nostra società che “la prostituzione” (sulla non appropriatezza oggi di questo termine ci torneremo nei prossimi approfondimenti) sia inevitabilmente legata allo sfruttamento: non si crede possibile la consapevole scelta di utilizzare il proprio corpo liberamente per lavorare e guadagnare attraverso il sesso.

Quello che sfugge, però, è che leggi penali come la legge Merlin abbiano finito però con il tempo, tanto nell’opinione pubblica (attraverso disinformazione e stigma), quanto nella prassi dei tribunali (attraverso l’attivazione di azioni penali e processi), per prendere di mira le lavoratrici e i lavoratori del sesso stessi, i loro clienti, le persone che possiedono o gestiscono locali o i proprietari di case dove i locatari svolgono sex work, colpendo spesso attività non solo inoffensive ma anche utili per lavorare in condizioni più sicure e di mutuo aiuto. 

Lo stesso risultato, se non peggiore, che si è ottenuto in questi anni - e torneremo più approfonditamente anche su questo - con l’utilizzo illegittimo e sempre più frequente di poteri locali, quali le ordinanze dei sindaci o i regolamenti comunali di polizia che sanzionano condotte di “adescamento” e di “oscenità” della prostituzione su strada.

Tutto ciò porta alla luce il paradosso del sistema italiano: benché autodeterminata, la libertà di esercitare lavoro sessuale resta assoggettata a numerose limitazioni.

Questa imposizione si riflette nella considerazione, sociale e normativa, della persona sex worker come soggetto immorale, quando non pericoloso. L’impossibilità di pretendere il pagamento della propria prestazione davanti ad un giudice per contrarietà al buon costume, o di rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno, sempre a causa di un giudizio di moralità, sono solo alcuni dei numerosi esempi della stigmatizzazione e discriminazione riservata alle persone che si prostituiscono. 

Le associazioni di sex worker in Italia lavorano e lottano da molto tempo per cercare di cambiare la legge Merlin, ponendosi l’obiettivo di decriminalizzare il loro lavoro, tutelarne i diritti e contrastare lo sfruttamento, senza però voler introdurre nuovamente il sistema delle case chiuse.

Le richieste di questi anni si basano su proposte di legge, appelli, manifesti e documenti che prevedono, oltre alla decriminalizzazione e al riconoscimento di diritti sindacali, la possibilità di forme di autogestione individuale o collettiva in luoghi che rispettino la salute e la sicurezza di chi lavora, anche al fine di contenere e contrastare con maggiore efficacia ciò che invece è sfruttamento.

Avvicinandoci al nuovo anno, un augurio che possiamo porci è che queste istanze vengano finalmente ascoltate.  

Giulia Crivellini è avvocata e attivista per i diritti civili. Patrocinante ricorsi in materia di diritti riproduttivi, discriminazioni, fine vita, tutela dei diritti delle persone esercenti il lavoro sessuale e di quelle private della libertà. Nel 2021 fonda la campagna “Libera di Abortire” per un accesso libero e sicuro all’aborto in Italia. Nel 2023 è docente con incarico di collaborazione nel Corso di studi "clinica legale sul contrasto alla violenza di genere e le discriminazioni multiple" presso il Dipartimento di giurisprudenza dell'Università degli Studi Roma Tre. Nello stesso anno è redattrice della proposta di legge di iniziativa popolare in materia di decriminalizzazione e riconoscimento del lavoro sessuale. Ha collaborato con l’associazione Mama Chat, offrendo supporto informativo e legale a chi vuole interrompere una gravidanza e segue diverse realtà sportive nel contrasto alla violenza di genere e alle discriminazioni. Attualmente è membro di giunta dell’Associazione Luca Coscioni, lavorando nel team legale. Ricopre il ruolo di responsabile dell’Ufficio di pubblica tutela dell’Azienda socio-sanitaria di Melegnano e Martesana. Per SimpleMedia offre analisi sull'attualità e sul panorama legislativo legato ai diritti del SexWork.